RISERVA DELLO ZINGARO


RISERVA DELLO ZINGARO


zingaroLa costa dello Zingaro è uno dei pochissimi tratti di costa della Sicilia non contaminata dalla presenza di una strada litoranea.
Nel 1976 erano già iniziati i lavori per la costruzione della litoranea Scopello-San Vito Lo Capo, ma in seguito ad una serie di iniziative del mondo ambientalista, culminate in una partecipatissima marcia di protesta che ebbe luogo il 18 maggio 1980, l’Azienda Regionale Foreste Demaniali della Regione Siciliana si impegnò ad espropriare l’area dello Zingaro riconosciuta di grande interesse ambientale.
Con la legge regionale 98/1981, venne ufficialmente istituita la riserva, la prima riserva naturale della Sicilia, affidata in gestione all’Azienda Regionale Foreste Demaniali.

ERICE


ERICE


Origini

ericeSecondo Tucidide Erice (EryxΈρυξ in greco antico) fu fondata dagli esuli troiani, che fuggendo nel Mar Mediterraneo avrebbero trovato il posto ideale per insediarvisi; sempre secondo Tucidide, i Troiani unitisi alla popolazione autoctona avrebbero poi dato vita al popolo degli Elimi. Fu contesa dai Siracusani e Cartaginesi sino alla conquista da parte dei Romani nel 244 a.C.
Virgilio la cita nell’Eneide, con Enea che la tocca due volte: la prima per la morte del padre Anchise, un anno dopo per i giochi in suo onore. Virgilio nel canto V racconta che in un’epoca ancora più remota vi campeggia Ercole stesso nella famosa lotta col gigante Erix o Eryx, precisamente nel luogo dove poi si sfidarono al cesto il giovane e presuntuoso Darete e l’anziano Entello.
In antico, insieme a Segesta, che parrebbe di fondazione coeva, era la città più importante degli Elimi, in particolare era il centro in cui si celebravano i riti religiosi.
Durante la prima guerra punica, il generale cartaginese Amilcare Barca ne dispose la fortificazione, e di qui difese Lilibeo. In seguito trasferì parte degli ericini per la fondazione di Drepanon, l’odierna Trapani.
I Romani vi veneravano la “Venere Erycina”, la prima dea della mitologia romana a somiglianza della greca Afrodite, ma Diodoro Siculo narra l’arrivo di Liparo, figlio di Ausonio, alle Isole Eolie (V, 6,7), aggiungendo che i Sicani «abitavano le alte vette dei monti e adoravano Venere Ericina».
Scarse, o quasi nulle, sono le notizie della città e del santuario nel periodo bizantino, restando comunque economicamente attiva.

Dagli arabi agli spagnoli

ericeDenominata Gebel-Hamed durante l’occupazione araba (dall’831 fino alla conquista normanna dell’Isola), la montagna non fu probabilmente nemmeno abitata in
questo periodo. Ripopolata la nuova cittadella col nome di Monte San Giuliano, ribattezzata nel 1167 dai Normanni, acquista prestigio anche con la costruzione di nuovi edifici civili e religiosi, divenendo una della maggiori città demaniali del Regno, grazie anche alle concessioni ottenute sulla base di un falso documento, a firma di Federico II, utilizzato dai suoi abitanti come attestato di legittimità per l’occupazione del vasto territorio che si estendeva dal Monte Erice fino ai confini di Trapani, e verso oriente sino a San Vito Lo Capo e alla confinante città di Castellammare del Golfo. Erice deve la sua rinascita alla Guerra del Vespro, divenendo di fatto la rocca da cui scaturivano le azioni belliche di Federico d’Aragona, re di Sicilia fino al 1337. Sant’Alberto, che predicò l’azione contro gli Angioini discendeva
dagli Abbati, una delle maggiori famiglie della città.
Da ricordare è anche la poco pacifica convivenza con i dominatori spagnoli, culminata con una rivolta popolare assai feroce. La vita monastica, con numerosi monasteri amministrati da famiglie locali, caratterizza la vita cittadina. La gestione delle rendite agricole di questi determina l’edificazione di straordinari edifici tuttora visibili. La ricchezza delle famiglie che quivi vivono sino alla riforma borbonica di Tommaso Natale che, di fatto, scardina il sistema su cui si era retta sino ad allora l’economia delle città demaniali, è testimoniata dai palazzetti e case signorili che si affacciano, numerosi, sulle strade della città. Le circa cento famiglie che nei 700 anni di vita della città hanno partecipato alla conduzione del potere (capitani, giurati, magistrati) hanno lasciato testimonianza della loro vitalità. La ristrutturazione ottocentesca della piazza centrale che era detta della Loggia, dedicata successivamente ad Umberto I, per tornare al suo nome originario nel 2012, ha fatto perdere la lapide che recitava con orgoglio lo sforzo economico che i liberi cittadini di Erice avevano nel Seicento pagato al re per non essere infeudati da nessuno! La città tende comunque a conservare gelosamente il fascino di una cittadina medievale.
A partire dal XVI secolo si svolge la rappresentazione del misteri in occasione del Venerdì Santo, emulando quella trapanese, in misura ridotta ma molto suggestiva. Sostituendo la rappresentazione scenica teatrale con statue in legno attorno all’800, i misteri vengono condotti a spalla, seguendo sempre il percorso originario.

Dal Novecento ai giorni nostri

Nel 1934 Monte San Giuliano riprende il nome di “Erice”. Il suo territorio, denominato Agro ericino, comprendeva oltre al territorio dell’attuale comune, anche quelli di Valderice, Custonaci, San Vito Lo Capo e Buseto Palizzolo.
Dal 1957 si organizza ogni anno, nel periodo primaverile, una gara automobilistica di cronoscalata, denominata “Gara in salita di velocità Monte Erice”, per la quale esistono anche un campionato italiano e un campionato europeo. Sui tornanti che partono da Valderice e raggiungono la vetta dell’omonimo monte, sfrecciano a tutta velocità vetture moderne, storiche, prototipi da competizione e vettura formula, circondati da sportivi e appassionati e, naturalmente, da uno sfondo mozzafiato.
Dal 1963 è sede del Centro di cultura scientifica Ettore Majorana, istituito per iniziativa del professor Antonino Zichichi, che richiama gli studiosi più qualificati del mondo per la trattazione scientifica di problemi che interessano diversi settori: dalla medicina al diritto, dalla storia all’astronomia, dalla filologia alla chimica. Per questo alla cittadina è stato attribuito l’appellativo “città della scienza”.
Dal 1972 ha sede la Associazione Artistica Culturale La Salerniana, fondata dal poeta Giacomo Tranchida che conserva opere di Carla Accardi, Gianni Asdrubali, Pietro Consagra, Antonio Sanfilippo, Emilio Tadini tra gli altri, organizzando mostre d’arte contemporanea curate da critici di rilievo come Palma Bucarelli, Achille Bonito Oliva, Luciano Caramel e Giulio Carlo Argan. Nel 1990, a seguito della prima edizione dell'”Atelier Internazionale di Gastronomia Molecolare“, di cui da allora regolarmente si tengono convegni annuali, si ebbe il formale riconoscimento della disciplina della gastronomia molecolare.

SELINUNTE


SELINUNTE


Selinunte chiamata dai greci “Selinùs“, deriva il suo nome da σέλινον (sélinon), il sedano che tuttora vi cresce selvatico, divenuto simbolo della monetazione della città.
La città ebbe una vita breve (circa 240 anni). In questo periodo la sua popolazione crebbe fino a raggiungere i 100.000 abitanti.
Lo stato in cui si presenta oggi la città non è dovuto solo alla sua distruzione ad opera dei Cartaginesi, ma anche a terremoti, a secoli di incuria e di gravi spoliazioni.
Selinunte, sottofondazione di Megara Hyblea, fu fondata nel 650 a.C. (Diodoro Siculo) lungo la costa del Mar Mediterraneo, tra le due valli del Belice e del Modione, su di un luogo non interessato da precedenti insediamenti indigeni. Selinunte fondò a sua volta nel 570 a.C. Heraclea Minoa presso la foce del suo estremo confine meridionale, il fiume Plàtani. Raggiunse velocemente il suo massimo splendore nel VI e V sec. a.C.; la sua ricchezza era forse dovuta al dominio che esercitava su di un vasto territorio. Selinunte è la colonia greca più occidentale della Sicilia, a diretto contatto con l’area occupata dai Cartaginesi; tutta la sua storia è condizionata da questa posizione di confine, fino al dissolvimento del problema con la conquista romana della Sicilia.

Ricostruzione della acropoli e dei suoi templi

Dapprima in buoni rapporti con i Cartaginesi, dopo la loro disfatta nella battaglia di Himera (480 a.C.), Selinunte strinse alleanza con Siracusa, cui rimase fedele. La sua politica di espansione territoriale verso Segesta causò diverse guerre: il primo scontro avvenne nel 580 a.C. dal quale Segesta uscì vittoriosa. Nel 415 a.C. Segesta chiese aiuto ad Atene perché intervenisse contro l’intraprendenza selinuntina supportata da Siracusa. Gli ateniesi presero come pretesto la richiesta di Segesta per intraprendere una grande spedizione in Sicilia ed assediare Siracusa, ma ne uscirono disastrosamente sconfitti. A Selinunte lo scontro finale si ebbe nel 409 a.C. con l’intervento dei Cartaginesi che, sbarcati in Sicilia con un esercito di 5.800 uomini al comando del generale Annibale Magone (figlio di Giscone), colsero di sorpresa la città che cadde, dopo soli nove giorni di assedio, prima che potessero giungere i soccorsi da Siracusa e da Agrigento. Occupata, saccheggiata e distrutta, 16.000 cittadini selinuntini furono uccisi, 5.000 fatti schiavi, 2.600 riuscirono a fuggire ad Agrigento.
Ripopolata con i suoi profughi e con altre popolazioni che il fuoriuscito siracusano Ermocrate vi condusse, Selinunte fu ricostruita (comprese le mura) nella sola area dell’acropoli, divenendo per alcuni anni il quartier generale di Ermocrate dal quale partivano le sue azioni belliche contro le città puniche. Alla morte di questo, Selinunte perse definitivamente la sua importanza politica; venne rioccupata dai cartaginesi – occupazione confermata, del resto, in tutti i successivi trattati greco-cartaginesi – quindi da Pirro (276 a.C.), fino alla definitiva evacuazione della sua popolazione da parte dei Cartaginesi a Lilibeo durante la I Guerra Punica (250 a.C.), e all’assorbimento del suo territorio nei dominî romani.
Selinunte non fu più riabitata: le foci intasate dei fiumi resero la zona malsana, dissuadendo così nuovi insediamenti. Sappiamo infatti che Selinunte era disabitata già alla fine del I sec. a.C. (Strabone). Successivamente la città fu interessata solo ancora in modo episodico da insediamenti, per altro molto modesti (e.g. nell’alto medioevo divenne dimora di eremiti e comunità religiose). Il colpo di grazia, infine, le fu inferto da un violentissimo terremoto che, in epoca bizantina (VI-IX secolo), ridusse i suoi monumenti a un cumulo di rovine. Un ultimo vano tentativo di farla rinascere fu fatto in epoca araba (IX-XI secolo) – il cronista Edrisi la chiama “Rahl’-al-Asnam” cioè “villaggio dei pilastri” – dopo di che di Selinunte si perse pure la memoria.
Reidentificata soltanto nel XVI secolo, nonostante nel 1779 un decreto di re Ferdinando IV vietasse lo smantellamento delle sue rovine (usate dagli abitanti della zona come cave di pietra), le devastazioni proseguirono fino a quando il governo italiano non vi pose una custodia permanente. I primi scavi a Selinunte furono eseguiti nel 1809 da parte degli inglesi.

TRAPANI


TRAPANI


LGuida-Turistica-di-Trapani-11a città, a forma di falce, è separata dal mare di Tramontana da  vecchi ed      imponenti bastioni.Torre di Lignyche, eretta dal principe  di Lignèe nel 1671, come  torre di avvistamento dalle incursioni  barbariche, e posta sull’estremità nord-  occidentale della falce del  porto, accoglie il Museo della Preistoria e del Mare  esponente  reperti e documenti ritrovati in provincia di Trapani.Isole Colombaia  che  appaiono visibili dal caratteristico porto peschereccio della  città.Intorno al XIV  secolo in queste isolette venne costruito un  castello la cui torre fu usata nel ‘400  come fortezza e  successivamente adoperata come prigione.La riserva naturale delle  saline e i mulini a vento, offrono un panorama quasi unico in tutta la Sicilia. Un  elegante barocco rivive nelle chiese e nei palazzi del centro storico, caratterizzato  anche da suggestivi angoli espressioni di una cultura marinara, come l’artistico  loggiato che ospita il mercato ittico e il quartiere dei pescatori.Particolarmente  suggestivo il Museo Pepoli famoso per la collezione di coralli, un tempo pescato nel  mare trapanese.

SAN VITO LO CAPO


SAN VITO LO CAPO


Nasce alla fine del settecento, nel territorio demaniale ericino, alle falde di Monte Monaco, nella bianchissima baia posta tra Capo San Vito e Punta Solanto. Tracce dell’epoca paleolitica, mesolitica e neolitica si trovano nelle numerose cavità naturali, un tempo abitazioni, che si affacciano sul mare. Resta avvolta dal mistero l’esistenza di un’antica borgata, Conturrana, una rupe immensa a 500 passi dalla riva staccatasi dalla montagna. Qui, probabilmente intorno alla fine del IV secolo a.C., esistette un piccolo centro abitato.

 Il santuario di San Vito Lo Capo

Nucleo generatore di San Vito Lo Capo è l’attuale Santuario, antica fortezza che nell’arco dei secoli ha subìto numerosi interventi edilizi. La prima costruzione, realizzata intorno al trecento, fu una piccola cappella dedicata a San Vito martire, patrono del borgo marinaro. Secondo una tradizione accettata e riportata da tutti gli agiografi e cultori di storia siciliana, il giovane Vito per sfuggire ai rigori della decima persecuzione ordinata da Diocleziano (303-304), e alle ire del padre Ila e del prefetto Valeriano, assieme al suo maestro Modesto e alla nutrice Crescenzia, scappato via mare da Mazara, col favore dei venti approdò sulla costa del feudo della Punta, in territorio di Monte Erice, dagli antichi chiamato Capo Egitarso. Qui cominciò a predicare la parola di Dio tra la gente del luogo, in una borgata poco distante dalla spiaggia, chiamata Conturrana.

 La cappella di Santa Crescenzia

In nome di Dio guariva gli infermi, quanti fossero colpiti da rabbia o morsi da animali, o compromessi nella salute per un improvviso spavento, scacciava gli spiriti immondi. Ma, a dispetto dei numerosi miracoli operati, la sua opera fu coronata da scarso successo, e si concluse col castigo inflitto da Dio a Conturrana. La credenza popolare ritiene che il giovanetto San Vito, martire al tempo di Diocleziano, sia stato in questo paese non benevolmente accolto, allorquando si era colà rifugiato, accompagnato dai precettori Modesto e Crescenzia. L’inesorabile ira divina si era abbattuta sul paese, seppellendolo completamente sotto una frana, non appena i tre profughi avevano lasciato il centro abitato, dirigendosi verso il mare. Sempre secondo tradizione Santa Crescenzia, voltandosi a guardare la città che crollava, divenne pietra nello stesso punto dove adesso sorge la cappella, alla quale ancora oggi gli abitanti del luogo attribuiscono poteri magici. Per San Vito, invece, seguì una breve dimora nell’Egitarso e, dopo un viaggio attraverso la Sicilia e la Basilicata, il martirio, il 15 giugno del 299. Col tempo crebbe la fama della chiesa e dei “miracoli” attribuiti al martire Vito e a Santa Crescenzia e così, per accogliere i numerosi fedeli che arrivavano in pellegrinaggio – e, soprattutto, per difenderli da ladri e banditi – l’originaria costruzione andò trasformandosi in una fortezza-alloggio. Tale realizzazione risale alla fine del quattrocento. Fin dall’inizio, il Santuario fu fatto centro di una grande devozione, e la fama dei miracoli che il Santo qui operava varcava anche i confini della Sicilia, richiamando in ogni stagione numerosissimi pellegrini. Anche gli stessi corsari, nemici dichiarati della fede cattolica, avevano rispetto per il Santo e per il suo tempio. Nel frattempo aumentavano i pericoli di incursioni di pirati barbareschi, così, lungo le coste dell’isola, cominciarono ad essere edificate numerose torri di avvistamento. Le torri principali erano tre, due sono ancora visibili e sono torre Scieri e torre Isolidda. La terza invece, torre Roccazzo, ubicata sul piano Soprano che si estende ad ovest del paese di San Vito (il luogo fu appositamente scelto perché l’unico atto a garantire la corrispondenza con le altre due torri), venne demolita per far posto al semaforo militare nel 1935. All’inizio del settecento iniziarono a comparire le prime case tutto intorno al Santuario,. Alla fine dello stesso secolo, attorno alla chiesa esisteva già un piccolo nucleo di abitazioni. Nell’arco dei secoli, la cittadina ha accolto esploratori, viaggiatori e persino commissari governativi che, mossi da curiosità, interessi culturali o militari, misero a punto meticolose ed interessanti descrizioni sulla geografia dei luoghi visitati.

CUSTONACI


CUSTONACI


Il territori017-custonaci-matrice-1o Custonacese definito la “RIVIERA DEI MARMI”per la presenza di numerose cave per l’estrazione di marmi, confina con i Comuni di Valderice, Buseto Palizzolo, San Vito lo Capo, Castellammare del Golfo, con il Mar Tirreno a Nord, ha un estensione di 69.61 kmq ed un andamento prevalentemente montuoso collinare ed altimetricamente vario, è raggiunge la quota di 1.100 metri con il Monte Sparagio, altri rilievi montuosi predominanti sono il Monte Palatimone (695 mt), Monte Cofano (659 mt), Monte Cocuccio (597 mt) e il Monte Bufara (323 mt), dove è presente sul versante meridionale una grande dolina carsica della profondità di circa 40 mt.
Le uniche aree pianeggianti sono limitate alla zona di Purgatorio, Lentina, Piana Sant’Alberto, e alla fascia costiera di Cornino e Frassino. La più significativa di queste pianure è senz’altro la piana lacustre di Purgatorio racchiusa dai versanti calcarei del Monte Palatimone – San Giovanni e del Monte Sparagio, che costituisce un particolare paesaggio agrario isolato, con vigneti, seminativi e colture arboree.
Il territorio è caratterizzato da incantevoli formazioni rocciose di particolare rilevanza ambientale, paesaggistica e panoramica, di ricca vegetazione con rilevanti aspetti di macchia mediterranea, gariga, praterie secondarie, rupicola di tipo endemico, e palma nana.
Molto suggestivi sono i due anfiteatri naturali che hanno un orizzonte visivo aperto verso il mare, dai tramonti spettacolari, chiusi dai crinali delle colline che li delimitano; uno è quello del Golfo di Bonagia posto a nord ovest ed è costituito dalla pianura costiera di Cornino – Bonagia e dalla corona dei rilievi che si sviluppano dal monte San Giuliano (Erice) fino ad arrivare al  monte Cofano.
L’altro, invece, posto sul lato Nord Est del territorio, è l’anfiteatro naturale del Golfo del Cofano, costituito dalla pianura costiera di Frassino – Castelluzzo e dai rilievi che si sviluppano da Nord-Ovest con il monte Cofano, Rocche del Tuono, fino alla falesia di Piana di Sopra del Comune di San Vito Lo Capo.

Il rilievo dolomitico di monte Cofano per l’alto grado di naturalità, oggi Riserva Naturale, è l’elemento di connessione fra i due paesaggi, con la sua massa monumentale rappresenta un’unità strutturale, di riferimento visivo e di rilevante interesse biogeografico per la presenza di entità floristiche e faunistiche. La qualità del paesaggio naturale è esaltata dalle antiche strutture architettoniche della Tonnara e della Torre del Cofano che dominano la costa bassa e rocciosa con piccole calette.
Custonaci_riserva_monte_cofanoI monti sono percorsi da antichi tracciati viari panoramici, di collegamento fra gli insediamenti rurali, i bagli e i territori circostanti.
Numerosi sono i beni storico-architettonici, come i bagli (Baglio Cofano, Baglio Vecchio, Baglio Venza, Baglio Agosta, Baglio Cesari, Baglio Mangiapane, Baglio Li Vigni, Baglio Castelluzzo, Baglio Giacalone, Baglio Barone, Baglio Rizzo, Baglio Cammarata), Torri costiere (Torre di Cofano e di San Giovanni del XVI Sec e XVIII sec), Tonnare, Cave di tufo, Edicole Votive (fiureddi), un insieme di grotte (Grotta del Crocifisso, Grotta Buffa, Grotta Mangiapane, Grotta Miceli, Grotta Spada, ecc), molte delle quali presentano all’interno costruzioni realizzate in pietre e tufo, antichi masserie edificati durante i secoli XVIII e XIX, destinati a residenza rurale e ad attività agricole e siti di interesse archeologico, speleologico, e naturalistico.
I Bagli, sono insediamenti formati da più case vicine ed originariamente servivano per accogliere i lavoratori dell’azienda agricola e le loro famiglie; venivano costruiti in zone distanti dai centri abitati ed erano strutturati in modo da garantire l’autosufficienza di coloro che vi abitavano, e per la maggior parte prendevano il nome del proprietario del fondo. Sono costruiti principalmente in muratura portante con pietrame informe e copertura in legno con manto di tegole. L’elemento che caratterizza il “Baglio” è il cortile interno, di forma quadrangolare e comunicante con l’esterno attraverso un portone di legno. Una variante è rappresentata dal baglio a corte aperta come il Baglio Cofano e il Baglio della Grotta Mangiapane che presentano più cortili comunicanti tra di loro e delimitati da muretti a secco in pietra.
Il centro urbano di Custonaci, con caratteri architettonici della tradizione agro-pastorale, è oggi cuore delle attività estrattive, è posto in un sito panoramico (belvedere di Custonaci).
Le intense attività estrattive hanno costruito suggestivi e drammatici squarci sui versanti dei monti creando un nuovo paesaggio che domina le più serene visuali dei campi agricoli. I processi di modificazione, dovuti all’azione antropica, hanno in parte compromesso l’identità storica ed ambientale di alcune zone; il degrado ambientale di forte impatto visivo determinato dagli cumuli di detrito di cava è spesso di notevole entità.